E con questo sono 20 anni di insegnamento all’università Dai postumi della caduta del muro di Berlino ai social network, dall’informazione verticale e conservativa allo sharing delle informazioni, all’open source agli open data. Siamo passati da un ordinamento rigido, all’apertura di migliaia di corsi di studio per poi accorgersi che bisognava ricompattarli.
L’età dell’accesso facile alla conoscenza porta con sé qualche conseguenza. Ne parlavo qualche giorno fa con un collega che mi ha spinto a scrivere questa riflessione.
Con gli studenti si possono avere due comportamenti opposti: si può andare a lezione con un pacco di cose da dire e libri da far leggere oppure si può modulare la docenza in relazione al livello di competenza acquisita dagli studenti stessi. Si può insegnare la propria disciplina in maniera indipendente oppure contestualizzandola all’interno del percorso di studio.
La seconda ipotesi è quella che preferisco, per me l’insegnamento non è un mestiere come un altro, ci metto passione. E il successo di un corso è definito da cosa e come sono riuscito a trasmettere, quali conoscenze possono portarsi nel resto del percorso formativo e professionale. Il risultato lo misuro dalla percentuale di studenti che hanno raggiunto un ottimo livello di autonomia nella disciplina.
Negli anni si è però sviluppata una necessità prima assente, bisogna giustificare quello che si insegna. Lo studente è critico verso quello che ascolta, spesso esterna frasi del tipo “ma questo a cosa ci serve?” o “non possiamo studiare tutti quei libri, non abbiamo tempo”.
La prima osservazione riguarda l’interpretazione personale parlando a nome di tutti. Una tecnica mutuata dalla discussione televisiva alla De Filippi. Si interviene e si sostiene la propria critica dicendo che “lo pensano tutti”. Nulla di più falso. Per uno che lo pensa ce ne sono cento che non si sono posti il problema.
Sempre meno si studia per passione. Un indicatore importante sono gli aumenti, statisticamente rilevanti relativi al cambio di facoltà da parte degli studenti nei primi anni. Ci sono studenti che passano allegramente da biologia a giurisprudenza, da medicina a scienze politiche. Non si tratta di “tarature” del percorso di studio ma di scelte universitarie poco più che casuali.
Sempre più hanno come unico obiettivo superare l’esame, non acquisire competenze. In questa ottica è chiaro che si punta al minimo sforzo e si afferma con una buona dose di arroganza che un certo studio non serve.
A dire il vero, e vedendo i dati degli anni scorsi, esiste una giustizia superiore. Questi studenti poco attenti alla loro formazione più profonda sono ai margini del mondo lavorativo o ambiscono a ruoli dove la competenza è difficilmente qualificabile.
Questa deriva è frutto di un fenomeno di delegittimazione del ruolo professorale maturato nelle scuole medie e superiori. Fenomeno che si è esteso ma non è quasi mai governato. Ne ha scritto con lucidità e competenza Galatea qui e qui.
Per questo motivo, in ogni nuovo corso, introduco il momento formativo con gli scenari di apprendimento, con gli obiettivi finali, con l’inquadramento della disciplina del più vasto teatro delle competenze necessarie per non arrivare impreparati al lavoro.
Un buon 10% non lo capisce.