Perché i social estesi, quelli delle big tech, nascono molto tardi rispetto al web? Non è che mancassero le idee nei primi quattordici anni della rete. Le applicazioni di conversazioni massive sono sempre state oggetto di attenzione e interesse.
Chiunque abbia amministrato, o anche solo visto amministrare, un forum sa che il problema maggiore non è attivare le conversazioni (nei forum ci andavano e ci vanno solo le persone interessate ad un particolare tema) ma di moderarle.
La moderazione è fondamentale per la sopravvivenza di una piattaforma conversazionale che non goda dei privilegi di immunità come sta sempre più succedendo.
Il costo della moderazione ha sempre respinto l’idea di sviluppare applicazioni che potevano diventare potenzialmente rischiose.
Le tech sono così big che garanti, leggi e regolamenti sono solo una frazione del fatturato.
La mancanza di moderazione nei social, lo ripeto, lo sapevamo dalla metà degli anni ‘90, per non parlare delle BBS, sono onerose e sono una attività di alto valore. Per moderare correttamente bisogna conoscere il contesto, le metafore, lo slang del paese e del sottogruppo.
Quando i social sono stati invasi dai politici e dai loro interessi tutto è diventato più complesso. Le moderazioni hanno avuto reverenza verso che poteva utilizzare altri canali di potere e quindi, esattamente al contrario della vulgata, “si può proprio dire tutto” altrimenti si viene tacciati di censura.
I social, come noi li abbiamo conosciuti, erano luoghi di scambio di informazioni, notizie, scavalcavano i giornali e il loro maledetto imbuto economico: “se non paghi almeno una pagina pubblicitaria ti sogni che noi raccontiamo del tuo seminario”.
La pubblicazione on demand dei giornali prima si è piegata alla politica e alle grandi imprese poi agli schieramenti e quelli che giustamente si autodefiniscono “seguaci”.
La politica è entrata nei social con “le bestie” e proprio di bestie si è circondata.
L’effetto è stato quello di liberare la possibilità non di parola, mai successo nella storia della rete, ma di usare linguaggi e strumenti di polizia morale.
Il tutto condotto da una manciata di politici che imitati da aspiranti tali hanno costruito un ambiente tossico e depravato.
I più vigliacchi hanno costruito intorno una serie di profili compiacenti in grado di aiutare ad alzare i toni dello scontro, dileggiare, deridere pubblicamente e mettere alla gogna persone che non sono “personaggi pubblici”. Incitano la parte malsana dei social a commentare, a sbeffeggiare e insultare persone che spesso non reggono questa pubblica gogna.
Se la prendono con i deboli. Tipico dei vigliacchi.
Aspiranti “giornalisti” si sono improvvisati in ardue ricerche Google nella speranza di poter creare dei dossieraggi pronti per il primo inciampo.
Tutto questo senza che la magistratura abbia avuto modo di dare continuità ad un luogo di libera espressione.
Una guerra di tutti contro tutti usando modi e stratagemmi che non sono strumenti che possono esistere all’interno di una democrazia.
Timidi anche i Garanti della Privacy se non per comunicazioni ad effetto, giusto per la gloria di qualche riga in prima pagina o l’intervistatina a mezzanotte e mezza in qualche canale compiacente.
Non c’è una crisi del giornalismo.
C’è una parte del giornalismo che ha creato dentro di sé una crisi. Il crollo dei lettori non è dovuto a fattori esterni ma interni, nella perdita di qualità dei contenuti, da improvvisati che hanno avuto modo di raccontare una parte di mondo nel modo più ingenuo possibile.
Ma c’è un giornalismo di nuova generazione che va benissimo, che fa pensare, che stimola idee e permette di comprendere quello che accade.
Ma è un giornalismo che non cerca la poltrona in prima serata, che non ha direttori che vanno a propagandare idee di altri.
Le raccontano ai loro lettori e con loro costruiranno il giornalismo di domani.