Sono ormai decenni che nel nostro paese si dibatte il tema dell’adeguatezza, o meno, dell’università al mondo del lavoro. Da una parte ci sono coloro che sostengono, la maggioranza, che l’università deve creare delle figure immediatamente spendibili nel lavoro, dall’altra quelli che credono invece che il compito dell’università sia quello di fornire gli strumenti culturali per essere in grado di rispondere ad esigenze anche future e non prevedibili.
Io mi schiero senza dubbio con i secondi: l’università non può essere considerata alla stregua di una scuola professionale perché fallirebbe il suo obiettivo. Deve fornire la capacità e il metodo per poter avere un percorso formativo per tutta la vita. Deve dare la cultura di base, approfondita e coerente con il percorso di studio e insegnare a imparare.
In Italia, ma devo ammetterlo anche in gran parte dell’Europa, l’attenzione alla formazione continua è pari a zero. Solo alcune professioni richiedono delle “attività di mantenimento” ma spesso sono più legate ad aspetti normativi (imparo quella cosa perché è cambiata la legge, come nel caso dei commercialisti ad esempio) che alla reale consapevolezza di perdita di valore del lavoratore.
Dobbiamo pensare alla nostra formazione come ad un’automobile, appena comprato è perfetta per il suo uso ma con il tempo perde valore nei confronti con modelli più recenti e oltre alla ordinaria manutenzione, perché non ci lasci a piedi, sono necessari degli interventi migliorativi.
Quello che le imprese chiedono sono le competenze trasversali (inglese, informatica, capacità relazionali, capacità di lavorare in gruppo, ecc.). Tutte competenze che non possono e non debbono rubare spazio allo studio universitario e che bisogna procurarsi, ed è facilissimo basta volerlo, altrove.
Quello che molti neolaureati non conoscono sono invece le dinamiche delle imprese. Questo provoca un errore formare e reale di valutazione delle possibilità di impiego perché ci si incaponisce su una ricerca, molto spesso vana, perché il profilo personale non è per nulla appetibile.
Il titolo di studio, come la laurea, ormai sono dati per scontati per l’impresa e non sono più una leva ulteriore per trovare lavoro. Sono solo il primo passo che un’azienda chiede. In Italia scontiamo anche una generale incapacità delle impese di selezionare il personale. A parte casi di imprese strutturate e con personale di selezione e gestione delle risorse umane competente e dedicato, nella maggior parte delle PMI la selezione è affidata a persone del tutto inadeguate a tale ruolo che si concentra su aspetti, come ad esempio il titolo di studio, del tutto secondari perché sono loro stessi incapaci di valutare le competenze del candidato.
L’ultimo aspetto riguarda la cosiddetta “esperienza”. Anche questa retaggio antico di metodi di selezione basati sulle competenze di altri. “Assumo una persona che ha già lavorato nel settore perché vuol dire che il lavoro lo sa fare”. Affermazione quasi mai realistica perché le sfumature del lavoro sono sempre diverse, perché non esistono due aziende uguali al mondo, perché questo vale sono per i lavori manuali o dove è necessaria scarsissima competenza e questa può essere trasferita normalmente in poche ore.
Su questo punto il candidato può fare molto poco. Anzi può fare molto: selezionare lui stesso le imprese più virtuose e compenti. Ma questo sarà oggetto di un altro post.