Nelle ultime settimane ci sono state delle dichiarazioni, da parte di molte persone che hanno una buona o alta visibilità mediatica che mi hanno suscitato una forte attenzione. Queste persone, in eventi pubblici o social hanno ribadito più e più volte delle fasi del tipo “sono stato allievo di…” oppure “x è stato il mio professore”. Confidando che il nome noto, prestigioso, le mettesse al riparo da critiche o meglio creasse intorno a quello che affermavano una sorta di immunità.
In parole semplici: il traslare su di se le competenze ed il prestigio altrui solo per aver frequentato del professore.
Da quando ho iniziato a notare questa cosa mi sono accorto che è alla base delle premesse a tantissimi discorsi.
A questo aspetto affianco un’altra frase che ho sentito durante un convegno sulla didattica “bisogna lasciare il segno sugli studenti”.
Facciamo una doverosa premessa numerica o statistica.
Se un docente insegna per 40 anni è probabile che periodicamente cambi l’argomento delle lezioni, affini quello che insegna. Magari smentisca, cosa rara, quanto aveva affermato in un suo libro all’inizio carriera.
Ci sono anni buoni e anni meno buoni. Anni nei quali è brillante e lucido e anni nei quali vivacchia su cose scritte anni prima magari con la testa sul prossimo libro per una prestigiosa casa editrice o implorando una comparsata radio-televisiva.
Quindi dire “sono stato allievo di…”, detto per mettere a tacere l’interlocutore, per fargli capire che quello che afferma non è solo un’idea sua ma supportata da qualcuno di più famoso, a me lascia molto perplesso.
Se va bene questa persona ha frequentato un quarantesimo del percorso di studio del docente (se non è ripetente ha fatto un corso, un esame, un anno ben che vada) ma anche perché non è detto che abbia avuto la fortuna di incontrarlo nel momento di migliore lucidità.
La mia esperienza, lo so che l’esperienza personale non vale nulla statisticamente ma insisto, ho avuto l’esperienza dicevo che rafforza il mio pregiudizio: ho studiato con professori di elevato prestigio che nel tempo mi hanno deluso fino ad arrivare al paradosso che a distanza di anni affermano l’esatto contrario di quello che avevano scritto e insegnato.
Fa specie che sia necessario portare le “auto raccomandazioni” per avere l’attenzione delle persone, per ottenerne il consenso, per potersi reputare.
Siamo il paese della cooptazione, dove entri in qualsiasi sistema sociale per scelta diretta di chi già ci appartiene. Senza per forza dover dimostrare di avere requisiti migliori di altri aspiranti.
Quella che si chiamava “gavetta”, altro non era (e spesso è) la dimostrazione di essere sufficientemente votati alla causa per essere accettabili, spendibili in una forma organizzata della nostra società.
A dar man forte al mio pregiudizio è la sindrome dei Nobel. Un numero elevato, statisticamente rilevante, di persone che si sono viste assegnare il Premio Nobel, negli anni successivi hanno iniziato a sragionare, a prendere posizioni dichiaratamente antiscientifiche. Può essere l’effetto della notorietà su persone non abituate al “successo mediatico”, o forse sono persone che esprimono spettri molto diversi e contraddittori e uno di questi è così originale da meritare il Nobel.
Di certo il fatto che abbia vinto il Premio Nobel non ci garantisce che sia la persona più esperta di quella disciplina. Su questo ci possiamo mettere una pietra sopra. E già che ci siamo aiutiamo la gravità mettendoci anche un piede sopra perché la pietra non rotoli.
Torno sul tema di “lasciare un segno”. Il contesto era quello della “trasmissione della conoscenza” e si faceva diretto riferimento “alla bottega artigianale rinascimentale (sic)”.
In questo contesto la trasmissione del sapere avviene per “passaparola”, per mimesi, per copia di qualcuno che è definito come “maestro”.
Tutto bene.
Ma come ripeto ad ogni prima lezione dei corsi, questo metodo può essere esemplare ed eccellente in alcune discipline, in particolare quelle procedurali, ma che sia inapplicabile in altre, in quelle artistiche, creative e dell’immaginazione.
In questo caso, oltre alla conoscenza di chi ci ha preceduto, di quali sono le correnti passate e attuali, sia necessario lasciare spazio agli studenti di esprimere la loro creatività. Specialmente se parliamo di corsi di secondo livello dove le conoscenze professionali basiche dovrebbero essere date per assodate. Anzi sono certamente consolidate altrimenti non avrebbero potuto superare l’esame finale.
Per questo motivo preferisco lezioni cooperative e collaborative dove alla disciplina così come è sempre stata insegnata si possano fare delle escursioni nella realtà, nell’oggi, nel cercare di interpretare il presente con gli strumenti che abbiamo.
Si tratta di assumere una consapevolezza personale all’interno di un impianto sociale e formativo avendo superato da qualche anno quello educativo.
Il metodo non sempre è gradito in studenti che prediligono le certezze all’esplorazione, il consolidato all’evolvente e questo lo so e lo sappiamo bene tutti noi che da anni lavoriamo in questo modo. Ma è importante, per me, che il “segno” che lasciamo agli studenti sia quello di avergli permesso di esprimersi nella propria creatività, con i loro tempi, con le loro idee, con gli strumenti che scelgono.
Dobbiamo fornire spazi di pensiero e riflessione in grado di proteggere l’originalità e la creatività, dove la nostra esperienza possa essere solo una traccia, meglio se poco leggibile, per avere un punto di confronto. Ma traccia rispettosa deve rimanere.
Rimangono delusi i serial examinees ma per fortuna se ne incontrano sempre meno nelle discipline umanistiche e artistiche.
In questi anni ho capito che la sperimentazione operativa, sul campo, mi regala soddisfazioni enormi perché fa emergere la passione di ogni singolo studente.
I temi che affrontiamo sono socialmente complessi, non sono risposte banali a domande che nessuno ha posto, come spesso accade. Non sono esercizi accademici di dimostrazione delle abilità. Perché le abilità cambiano, così come il tempo a disposizione e studiare deve essere per tutti, senza preclusioni oggettive o anche personali.
Gli studenti affrontano temi che sono universali ed eterni con la stessa capacità di lavorare sul contemporaneo e sull’attuale.
Per me lasciare il segno vuol dire che il ricordo migliore che dovranno avere del mio corso è che qualcuno, all’università, ha creduto in loro. Totalmente.