Abstract. La metafora della finestra è alla base delle interfacce utente dei nostri computer da oltre 30 anni. Ma la finestra viene da lontano, il ritaglio prospettico, la finestra come piano di proiezione delle linee delle prospettive, come luogo definito e recintato dove volgere l’attenzione.
Quando si è inventata l’interfaccia grafica dei computer si è tornati alla più antica delle definizioni di spazio: la finestra, all’interno della quale succede di tutto ma che può essere replicata infinite volte. Ma sempre all’interno di altre finestre.
Noi continuiamo a lavorare dentro a questi spazi confinati ma Muriel Cooper (1926-1994) nelle sue ricerche al MIT di Boston ha superato il concetto di finestra per rappresentare il mondo in una forma libera. A lei è dedicata questa relazione.
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La metafora della finestra, nell’eccezione generale e più in particolare nelle applicazioni digitali, ha suscitato da sempre grandissimo interesse.
Un interesse speciale perché proprio nel campo delle interfacce uomo-macchina si opera sempre per metafore.
Metafore che, grazie alla loro radicata persistenza sociale, sono destinate a durare nel tempo.
Negli scorsi anni mi sono occupato, nel Corso di Laurea in Disegno Industriale della Facoltà di Design Arti dell’Università di Venezia, di un progetto denominato “NextPoint”.
Si trattava di un laboratorio di Laurea che ho gestito dal 1998 al 2002.
L’obiettivo esplicito del laboratorio era quello di “organizzare” su tematiche emergenti le tesi e far sperimentare agli studenti e ai laureandi delle pratiche di conoscenza su temi di frontiera.
Questo laboratorio ha avuto importanti esiti: nei 4 anni di attività sono state discusse 24 lauree e sono stati vinti una decina di concorsi di design.
È stata una grande esperienza formativa.
Il lavoro presentato è stato svolto per una attività di ricerca che aveva l’obiettivo di indagare nuove modalità per la progettazione e realizzazione di interfacce per computer e dispositivi digitali.
Come sempre succede in questi casi, l’aspetto di ricerca più attuale non può prescindere dalla ricerca delle origini e in questo caso, usando i computer la metafora della finestra si è indagato sulla finestra e la sua rappresentazione, con particolare attenzione a tutte quelle forme di rappresentazione in cui la finestra è realmente elemento di separazione ma anche occasione di abbattimento delle barriere tra il dentro e il fuori.
Uno dei temi che ho affrontato e che sono stati poi elaborati dai laureandi riguardava proprio il tema dell’interfaccia uomo-macchina cercando di andare oltre le rappresentazioni e le modalità di interazione ormai consolidate.
Abbiamo realizzato delle interfacce tridimensionali, delle interfacce ad analisi simbolica, in grado quindi di leggere i comportamenti dell’utente e rispondere adeguatamente.
Ma il nodo di tutta la ricerca era e tornava sempre prepotentemente quello della metafora della finestra.
La finestra è il punto di passaggio tra interno ed esterno, tra quello che siamo e quello che solo vediamo ma non tocchiamo.
Vi presento una serie di suggestioni più che immagini, una sequenza che parla da sola che racconta l’evoluzione della finestra nella rappresentazione e la rappresentazione come finestra.
Mi sono soffermato solo su alcuni spunti della rappresentazione nell’arte occidentale.
Senza approfondire tutta la pittura che sempre ha rappresentato la finestra non solo come elemento di costruzione dell’ambiente ma come occasione di riflessione, vedremo brevemente alcune opere che hanno costituito un momento importante nell’immaginario della finestra stessa.
La stessa funzione che ha avuto la finestra nell’ambiente esterno l’ha avuta nei secoli la cornice nei confronti del quadro.
In tale senso ci aiuta Matilde Battistini quando scrive: “Sin dalle sue origini, la cornice sembra svolgere un ruolo determinante all’interno dei meccanismi di produzione e ricezione delle immagini, attivando quella funzionalità, normativa e selettiva, indispensabile per separare il dominio dell’arte dal mondo reale. La posizione liminare e la funzione di cesura tra due diverse forme di realtà, il mondo fenomenico e la rappresentazione pittorica, fanno della cornice un oggetto estremamente ambiguo in quanto “luogo, o non-luogo, di un’articolazione mai semplice, mai data una volta per tutte, tra lo spazio dell’opera [il di dentro della rappresentazione] e lo spazio dello spettatore [il di fuori]“. ”
La riscoperta della matematica e della geometria in particolare come forma di “verità” e anche spesso di “rappresentazione spirituale” ci porta nel Rinascimento la teorizzazione e l’applicazione proprio della trasformazione prospettica in un piano-finestra non solo reale ma anche simbolico.
Con il Quattrocento la prospettiva lineare diventa modo di rappresentare la realtà, unico, indiscusso, quasi voluto da DIO e dalla sua perfezione.
Questo primato rimarrà tale per almeno quattro secoli.
Lo stesso Piero della Francesca con i suoi trattati e in particolare con il “De Prospectiva Pingendi“, identificava la pittura con la prospettiva, e basava tutto sulla “geometria solida”.
Ma la prospettiva centrale poneva un altro elemento fondamentale: la sequenza di lettura. È il punto di fuga, la fuga centrale diventava il fulcro di tutto il quadro, il centro non solo geometrico ma simbolico, del quadro stesso.
L’elemento importante è quindi al centro della composizione. Nella posizione perfetta.
Sono rari ma per questo da analizzare i casi in cui il centro della prospettiva, il centro di fuga è posto fuori dallo spazio rappresentato in primo piano e quindi fuori da una finestra, nel paesaggio stesso.
La prospettiva aiuta l’osservatore a spostare la sua attenzione verso l’esterno, uscendo proprio dalla finestra.
In un dipinto di Pietro Perugino accade proprio questo. La finestra è l’oggetto simbolico centrale, la figura, forma contorno, ritaglio della natura.
È li che va l’attenzione dell’osservatore, non nella stanza che in questo caso ha una funzione marginale.
Le stesse figure, simmetriche (tre a destra e tre a sinistra) fanno da presentazione della finestra stessa.
Ma l’aspetto fondamentale è che la luce della finestra illumina (anche simbolicamente) le figure interne, ne tratteggia i contorni del viso, scopre il colore vero della pelle.
“[…] In prima nel dipingere la superficie faccio un quadrato grande, quanto mi piace d’anguli dritti: il quale mi serve per una finestra aperta, onde si possa vedere l’historia […]” questo scriveva Leon Battista Alberti nel “De Pictura”.
Definisce quindi il quadro come finestra, ne fa una metafora.
Che peserà moltissimo nella cultura visuale occidentale.
Leon Battista Alberti definiva il quadro come “una finestra aperta sul mondo” e poneva però l’artista nella inusuale veste di “operatore geometrico”, ovvero colui che grazie alle leggi della prospettiva riproduceva la natura, magari la inventava ma la faceva somigliante a come sarebbe stata.
Il metodo “scientifico” garantiva a Leon Battista Alberti che si stava andando verso la perfezione della rappresentazione.
Ma la frase assume significati importanti: “una finestra aperta sul mondo” vuol dire che il mondo viene rappresentato con assoluta veridicità, con la maniacale precisione.
La finestra racchiude quindi “il vero”.
Ancora più interessante Pere Borrell del Caso (Puigcerdà 1835 – Barcellona 1910, Catalogna) il noto pittore, illustratore e incisore spagnolo che è conosciuto in tutto il mondo per la sua pittura del 1874 “Escapando de la crítica” (Fuggendo dalle critiche, ora a Madrid, Banco de España), un trompe-l’oeil che incornicia uno sfondo vuoto, primo di vita ma da cui esce una figura umana.
La cornice diventa la cesura, la finestra tra interno ed esterno.
Solo il titolo dell’opera richiama alla fuga ovvero all’uscita dalla critica in questo caso, ma può essere letta all’opposto come il rifugiarsi dentro un luogo chiuso, anche questo lontano dalla critica.
La profondità dell’opera è indispensabile per apprezzare questa intersezione tra interno ed esterno in un continuo che aiuta a interpretare le due possibili realtà.
Nella concezione della pittura fiamminga il quadro diventa frammento temporale e spaziale della realtà.
Racchiuso dal rettangolo magico della cornice vi viene rappresentato quello che accade in un certo luogo e in un certo momento, esattamente come la fotografia tre secoli dopo.
La realtà viene rappresentata “senza alcun divario e alterazione“.
In questa evoluzione della lettura, la pittura incappa nel fenomeno più sconvolgente della sua storia, un fenomeno repentino, che mette in discussione una volta per tutte anche il ruolo documentaristico della pittura stessa: la fotografia.
Il filosofo spagnolo Ortega Y Gasset in un saggio intitolato “Meditazioni sulla cornice”, databile fra il 1916 e il 1934, raccolto poi nell’opera “El Espectador” (Lo spettatore), scriveva “Il quadro, come la poesia o come la musica, come ogni opera d’arte, è un’apertura di irrealtà che avviene magicamente nel nostro ambito reale. Quando guardo questa grigia parete domestica, la mia attitudine è, per forza, di un utilitarismo vitale. Quando guardo il quadro, entro in un recinto immaginario e adotto un’attitudine di pura contemplazione. Sono, dunque, parete e quadro, due mondi antagonistici e senza comunicazione. Dal reale all’irreale, lo spirito fa un salto, come dalla veglia al sonno. L’opera d’arte è un’isola immaginaria che fluttua, circondata dalla realtà da ogni parte […]. Le tele dipinte sono buchi di idealità praticati nella muta realtà della parete: brecce di inverosimiglianza a cui ci affacciamo attraverso la finestra benefica della cornice. D’altra parte, un angolo di città o di paesaggio, visto attraverso il riquadro della finestra, sembra distaccarsi dalla realtà e acquistare una straordinaria palpitazione di ideale […]”
Dovremmo attendere Marcel Duchamp nel “ready made Fresh Widow” dove alla finestra viene negata la funzione fondamentale: vedere attraverso. L’opera parte da una finestra francese (French Window) e ne oscura le parti trasparenti.
Impedisce il rapporto dentro fuori, rovescia una funzione, la nega.
Lo fa per provocare ma anche per interrogarsi, e farci interrogare sulla funzione esplicita delle merci.
A tornare sul tema, caro non solo a lui ma a moltissimi surrealisti è Max Ernst che scriverà: “come il ruolo del poeta, a partire dal celebre “Lettre du voyant di Rimbaud”, consiste nello scrivere sotto la dettatura di ciò che si pensa, che si articola in lui, così il ruolo del pittore è quello di delineare i contorni e di proiettare ciò che si vede in lui”.
In questo caso il pittore è quello che crea la cornice di quello che vede.
Magari una cornice deformante, attiva e passiva, come avviene nel surrealismo ma sempre in grado in porre l’attenzione dello spettatore su un punto ben definito: incorniciato.
”Mentre la cornice reale ha la funzione di operare una cesura tra ‘arte’ e ‘realtà’, la cornice dipinta serve a offuscare tale limite” Stoichita in “L’invenzione del quadro”.
La finestra poi ha una connotazione religiosa del tutto originale: è alla finestra che appaiono le divinità, ma diventa anche il luogo di comunicazione con la luce e con il cielo (Fenestra Coeli).
È inoltre il luogo di ogni Annunciazione, attraverso i suoi vetri passano i raggi che rappresentano la immacolata concezione.
È il luogo di passaggio tra due diversi mondi: quello ultraterreno, sacro e il nostro.
D’altra parte è anche il luogo opposto, lo spazio che utilizza il Demonio per entrare in casa, rappresentazione questa spesso espressa con il corteggiamento di una giovane donna.
Passando solo come cenno alle altre arti non possiamo non citare lo stesso teatro ottocentesco, con la scatola scenica diventa il luogo stesso di rappresentazione, una cornice, una finestra che ritaglia “un altro luogo, un altro tempo”. Lo spazio diventa simbolico e lo spettatore è tale: guarda verso quella “finestra” che rappresenta altro.
Pensiamo poi all’utilizzo della finestra entro lo spazio filmico, il ruolo che assume nella narrazione ma specialmente come lente di ingrandimento sui fatti spazialmente distribuiti.
Anche il cinema ha a più volte ripreso la finestra come elemento centrale, come nodo distributivo di tutta la narrazione. Anche in questo caso, senza dilungarci possiamo ricordare “La finestra sul cortile” del 1954 (Rear Window di Alfred Hitchcock), “Identificazione di una donna” del 1982 (di Michelangelo Antonioni), e “Decalogo 6” del 1988 (Dekalog sze di Krsysztof Kielowski)
Abbiamo sfiorato nella nostra ricerca la finestra nella letteratura per la sua mancanza di rappresentazione visiva ma se pensiamo alla sola letteratura poetica francese tra ‘800 e ‘900 troviamo numerosissime occasioni: Baudelaire, Maupassant, Ponge, Proust, Reverdy, Verlaine, Zola per citare solo i principali.
E poi ancora il tema è affrontato da Friedrich Nietzsche, da Joseph Conrad, Franz Kafka, Marcel Proust, Roland Barthes.
Passando dalla rappresentazione artistica a quella strumentale la metafora della finestra entra prepotentemente nella storia delle tecnologie digitali e dell’informatica.
L’informatica e le telecomunicazioni sono la nuova forma, il nuovo linguaggio dell’interazione tra le persone.
La comunicazione digitale chiede un suo vocabolario, una sua sintassi, ma specialmente un nuovo foglio di carta su cui scrivere: il computer.
In informatica la metafora dell’interfaccia è visuale, azioni trasmesse dalla esperienza quotidiana al virtuale: aprire e chiudere le finestre, guardarci dentro, usarle come selettore di visuale.
La computer grafica, dopo alcuni esperimenti vettoriali degli anni ’60 raggiunge la sua fase di maggiore espansione nella metà degli anni ’70 con la disponibilità di tecnologie abilitanti come la costruzione di nuove memorie RAM, schede grafiche in alta risoluzione e la disponibilità di una generale tecnologia facilmente programmabile.
Qui il ruolo del sistema operativo, in grado di essere sufficientemente stabile per fare investimenti di ricerca, pone le basi della moderna computer grafica.
L’aspetto che appassiona maggiormente i ricercatori del periodo è l’interazione tra uomo e la macchina. Vengono fatti diversi esperimenti con l’utilizzo di penne a sensore luminoso, piuttosto che sistemi di posizionamento basati sulle coordinate X,Y.
Ma è in Xeros che Douglas Englebart nel 1968 inizia a lavorare sul concetto di sistema a finestre e dotato di un sistema di puntamento del tutto nuovo: che legge le coordinate della mano attraverso sue rulli collegati ad altrettanti decoder di posizione.
Non riscuote immediato successo anche se viene concesso di continuare con la sperimentazione.
Nasce l’interfaccia che dopo 30 anni non pare avere rivali se non forse nell’uso del touch screen e del movimento naturale come nel caso Nintendo DS e di Kinetics di Microsoft
La finestra in questo caso diventa una naturale limitazione dello spazio: la dimensione dello schermo è la prima finestra.
Dentro alla quale altre cornici-finestra contengono altrettante storie, altrettanti spazi visuali.
Nel 1973 la 1973 Xerox presenta il primo computer chiamato Xerox Alto con una interfaccia grafica (Graphical User Interface o GUI)che utilizza il concetto di finestra, di icone, di menu e di un puntatore.
Il prodotto è troppo costoso per il mercato, che peraltro non ha ancora accettano la metafora come occasione di semplificazione. Anche il successivo, denominato Xerox Star entra nel mercato per restarci pochi mesi.
All’inizio degli anni ’80 la Apple, dopo aver preso a piene mani dal progetto Xerox, lancia nel mercato Lisa il primo computer con GUI a prezzo contenuto.
Subito dopo, riprogetta il prodotto e nel 1984 immette nel mercato’Apple Macintosh che grazie ad un prezzo più consono e alla maturazione decennale del mercato diventa un prodotti di enorme successo.
Sulla scia del grande successo dell’Apple Macintosh, Microsoft si cimenta con un sistema operativo che chiamerà Microsoft Windows.
Nel 1985 proverà a conquistare il mercato delle interfacce grafiche friendly con la prima versione di Windows.
A questo punto l’informazione con il computer diventa densa, intensa, parallela, multi tasking.
Una interfaccia che dura ormai da quasi 40 anni.
Per anni i ricercatori tentano di ricreare all’interno delle finestre le metafore della vita reale: il desktop, gli spazi del lavoro, per arrivare più di recente con il tentativo di rappresentare mondi paralleli e fantastici, dove le leggi fisiche della terra sono superate.
È il caso di Second Life.
Negli anni ’90 iniziano una serie di ricerche in diverse università del mondo.
Tra tutti coloro che si sono occupati della teoria e dell’applicazioni delle metafore nell’interfaccia uomo-macchina un posto d’onore è riservato a Muriel Cooper.
La Cooper è stata professore di “Interactive media design” nel corso di “Media Arts and Sciences” alla scuola di Architecture and Planning e cofondatore e direttore del “Visible Language Workshop” al MIT presso il Media Laboratory diretto dal Professor Nicholas P. Negroponte.
Nei 15 anni in cui è stata direttore ha portato il laboratorio ai massimi livelli di competenza mondiale lavorando su tutte le espressioni del “computational design”.
La figura della Cooper è significativa perché è passata dalla grafica tradizionale legata alla produzione editoriale per approdare alle nuove tecnologie digitali e ha poi elaborato una particolare visione di della rappresentazione digitale.
La ricerca tecnologica per 20 anni si è bloccata, congelata, soddisfatta dei risultato raggiunto come se non fosse più possibile fare altro.
Ci siamo dovuti affidare all’arte per tornare a immaginare.
Per costruire u nuovo immaginario, una rappresentazione anticipata della realtà.
E sono serviti i film (Minority report) per liberare lo spazio e la creatività.
Cosa ci aspettano i prossimi anni?
Di sicuro la partecipazione di tecnologie del tutto diverse da quelle proiettive che finora abbiamo utilizzato, mi riferisco alle olografie e agli spazi immersivi.
In ogni caso, non potremo fare a meno di qualche nuova metafora.