L’antilingua
Il Giorno” | 3 febbraio 1965
Di Italo Calvino
Il brigadiere è davanti alla macchina da scrivere. L’interrogato, seduto davanti a lui, risponde alle
domande un po’ balbettando, ma attento a dire tutto quel che ha da dire nel modo più preciso e
senza una parola di troppo: “Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato
tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne
sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata”.
Impassibile, il brigadiere batte veloce sui tasti la sua fedele trascrizione: «Il sottoscritto, essendosi
recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento
dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di
prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del
combustibile, e di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo
durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio
soprastante».
Ogni giorno, soprattutto da cent’anni a questa parte, per un processo ormai automatico, centinaia di
migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la
lingua italiana in un’antilingua inesistente. Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli
d’amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlano pensano nell’antilingua.
Caratteristica principale dell’antilingua è quella che definirei il «terrore semantico», cioè la fuga di
fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato, come se «fiasco» «stufa» «carbone»
fossero parole oscene, come se «andare» «trovare» «sapere» indicassero azioni turpi.
Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di
vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente.
Abbiamo una linea esilissima, composta da nomi legati da preposizioni, da una copula o da pochi
verbi svuotati della loto forza, come ben dice Pietro Citati che di questo fenomeno ha dato
un’efficace descrizione.
Chi parla l’antilingua ha sempre paura di mostrare familiarità e interesse per le cose di cui parla,
crede di dover sottintendere: «io parlo di queste cose per caso, ma la mia «funzione» è ben più in
alto delle cose che dico e che faccio, la mia «funzione» è più in alto di tutto, anche di me stesso ».
La motivazione psicologica dell’antilingua è la mancanza d’un vero rapporto con la vita, ossia in
fondo l’odio per se stessi. La lingua invece vive solo d’un rapporto con la vita che diventa
comunicazione, d’una pienezza esistenziale che diventa espressione. Perciò dove trionfa
l’antilingua – l’italiano di chi non sa dire ho «fatto», ma deve dire «ho effettuato» – la lingua
viene uccisa. (…)