Ho trovato molto interessante l’intervento di Roberto Recchioni, con un post nel suo profilo Facebook sul tema del photo-bashing. Una riflessione a tutto tondo che partendo dall’attualità ci permette di ragionare sui temi della rappresentazione, sulla vicinanza simbolica e percettiva. Offre una serie di spunti che hanno acceso un dibattito. Ho chiesto a Roberto Recchioni la possibilità di riprodurre qui il suo intervento per preservarlo nel tempo e per utilizzarlo come occasione di approfondimento. I link nel testo sono miei.
In questi giorni, nel Sottomondo del Fumetto (quell’universo che si alimenta nelle discussioni tra addetti ai lavori che non finiscono pubblicamente su Facebook ma nascono e crescono in chiacchiere private o su gruppi privatissimi) impazza una discussione sul photo-bashing. Visto che questo genere di discussioni raramente resta davvero privato, mi permette un intervento pubblico che non entrerà nel merito del caso vero e proprio ma cercherà di fare qualche distinguo e riflessione.
Prendiamola lunga.
Prima del photo-bashing esiste la realtà che deve essere riprodotta.
Ora, chiunque abbia un minimo di cultura nella storia dell’arte, saprà che un tempo “inventare” le cose o rappresentarle non per com’erano ma per come l’artista le vedeva, era ritenuta una via “facile” al disegno e alla pittura, una cosa da biasimare.
In tempi antichi (ma nemmeno tanto) il raggiungimento del “come la realtà” era il bordo della piscina e, per ottenerlo, si usava ogni tipo di tecnica, dal disegno dal vivo con i modelli fino all’uso della camera ottica e di vari tipi di proiettori e via dicendo.
Molti dei grandi capolavori dell’arte sono stati ottenuti grazie a questo espediente combinato, ovviamente, con una straordinaria tecnica pittorica o di disegno.
Il quadro di Canaletto, qui sotto, è figlio di un sapiente uso della Camera Ottica, per esempio.
Praticamente, solo con Cézanne e poi con l’espressionismo che questo concetto viene ribaltato. Perché una volta raggiunto tecnicamente “il vero”, non ha più senso ripeterlo (specie con la nascita della fotografia).
Il fumetto, linguaggio giovane e con una spiccata natura commerciale (che, quindi, deve spesso confrontarsi con tutta una serie di imposizioni date dal mercato e dalle logiche produttive), non ha mai avuto troppo tempo di riflettere su questa roba. Come linguaggio, ha sempre messo in atto una relazione tra significante (in sintesi, la forma delle cose), significato (in sintesi, il senso delle cose) e referente (in sintesi, le cose in quanto tali), in un triangolo semiotico non particolarmente raffinato o complesso da capire.
Nel fumetto, sono sempre esistiti due approcci precisi per rappresentare il vero.
Il primo ha preferito stringere un forte rapporto tra significante e significato, mettendo in terzo piano il referente.
Con questo approccio, una pistola, o un’automobile, o un cavallo, o dei vestiti, sono disegnati con un numero limitato di segni di sintesi che rimandano all’idea, al concetto, di qualcosa ma non allo specifico della cosa stessa.
Le automobili di Jack Kirby sono l'”automobilità” iperuranica ma non sono riconducibili a un preciso modello.
Le pistole di Galeppini sono la “psitolinità”, non un modello preciso di Colt.
L’altro approccio, al contrario, ha saldato il rapporto tra significante e referente.
Si disegnano le cose per quello che sono nello specifico.
Non una pistola generica, ma un modello specifico, rappresentato con tutti i dettagli necessari per farlo riconoscere.
Il lavoro di Alex Raymond, per dire, è esemplificativo di questi due tipi di approccio.
Se Raymon è un “disegnatore delle cose per come sono” nei suoi primi anni su Flash Gordon (dove si rifà all’arte classica europea, con particolare attenziano al rinascimento e a Michelangelo), diventa un “disegnatore delle cose per quello che rappresentano”, aumentando il suo livello di sintesi (pur rimanendo fortemente ancorato al reale) negli anni successivi, con X9 e Rip Kirby.
Ora, entrambi gli approcci sono validi e godono di piena dignità, ma il secondo porta con sé la necessità di rifarsi a cose precise e di riuscire a renderle nella loro forma originale.
Da qui, l’uso di modelli dal vivo o di foto.
Tantissimi maestri del fumetto si appoggiavano o si appoggiano alle foto: da Giolitti a Zaniboni, da Tacconi a Giraud (Moebius), da Sejas a Hitch, da Otomo a Taniguchi, da Manara a Giardino, da Jean Paul Leon a Tim Bradstrett.
Ora, le foto si possono usare bene o male.
Si possono scattare da soli o si possono usare quelle che si trovano in giro.
Si possono guardare e usare come riferimento o ricalcare.
La chiave è come le si reinterpretano e come si amalgamano con il resto. Se sono messe al servizio della narrazione o se la dominano. E via discorrendo.
Ovviamente, l’avvento del disegno in digitale e del web, ha reso usare le foto estremamente più facile e, in termini di tempo, terribilmente più veloce. Questo significa che oggi, l’utilizzo delle foto è molto più comune. Più o meno ben integrate, più o meno ben messe a frutto.
E questo NON HA NIENTE A CHE SPARTIRE CON IL PHOTO-BASHING.
Ma che cos’è il photo-bashing?
In sostanza è una tecnica strettamente legata al disegno in digitale che ha preso piede nel settore delle previsualizzazioni per il cinema e i videogiochi. Significa creare illustrazioni nuove assemblando foto ed elementi (anche presi dal lavoro di altri illustratori) per creare delle immagini utili a dare l’idea di come sarà un film o un videogioco o un momento narrativo specifico.
Un collage di immagini altrui su cui poi il visualizer interviene (più o meno pesantemente) dipingendoci sopra.
Una specie di “rubamatic” (filmati composti di scene “rubate” da altri film per far capire come sarà il proprio) ma in ambito illustrativo.
Ed è una cosa del tutto lecita perché questo tipo di immagini sono pensate per un utilizzo interno, business to business, realizzate da professionisti per professionisti. E non sono pensate per diventare pubbliche. Servono per capire l’aspetto o il mood di qualcosa e dare indicazioni a chi poi quel qualcosa lo farà davvero.
In teoria.
Solo che la tecnica del photo-bashing ha preso piede e si è diffusa, uscendo da quelli che erano i suoi confini leciti, professionali ma “privivati”, per diventare illustrazione molto meno lecita, e pubblica.
E allora, con una certa regolarità, spunta qualche caso di qualche artista che realizza i suoi lavori rubando pezzi di illustrazioni di altri o foto di altri, ricombinandole, facendo un montaggio, ridipingendole, e poi vendendole per totalmente sue.
E che espone gli inconsapevoli committenti (perché non si può conoscere tutto) a delle possibili ritorsioni legali.
Ma perché succede? Perché questi artisti arrivano a questo punto?
Perché sono dei furbetti? In alcuni casi, sì.
Perché spesso sono proprio i committenti a spingerti in quella direzione? Anche (in questi giorni sto giusto confrontandomi con una realtà che mi ha chiesto una locandina e che, dopo tutta una serie di proposte personali bocciate, mi ha fatto capire che voleva semplicemente una foto ridipinta).
Perché non sanno disegnare?
Certe volte.
Perché il pubblico (e spesso la critica), non sembrano capaci di intuire il trucco e lo premiano invece che punirlo?
Pure.
Ma più stesso è perché è in atto un sinistro fraintendimento.
Cerco di farla rapida che già mi sono dilungato troppo.
Disegnare è difficile.
Il digitale lo rende più semplice perché fornisce tutta una serie di strumenti che, se usati con intelligenza (o furbizia), possono aiutare.
Programmi come Poser o Sketchup, per esempio, possono essere di enorme ausilio nella creazione di oggetti o figure (e tanti disegnatori che amate, li usano).
Trovare foto da usare come riferimento, da riprodurre o pure da ricalcare, è più facile.
Fare montaggi di lavori di altri è ancora mooolto più semplice e veloce.
E, a forza di farlo, si perde il senso delle realtà delle cose e ci si convince di essere davvero autori di quell’immagine.
Si finisce a rubare immagini che appartengono ad altri in tutto e per tutto.
Una foto per un fondale, pescata da Google e che non ci si prende nemmeno la briga di ridipingere, una testa da una bacheca di un illustratore, un braccio da un libro di concept design…. montare il tutto, aggiungere due robe disegnate a mano, e credere che il nostro processo di interpolazione le abbia abbia rese nostre e quindi degne di una ribalta pubblica a nostro nome.
Ci si confonde.
E ci si crede bravi.
Fino a quando la realtà viene a morderci le chiappe e ci ritroviamo sputtanati da qualche parte e noi, ormai inconsapevoli di capire il dolo, cadiamo dal pero.
Sia chiaro, questo non è un discorso di uno che non ha peccato e che sta scagliando la prima pietra.
Questo è il discorso di uno che in questa trappola ci è cascato e che adesso è più attento e più consapevole delle insidie di questa tecnica (pur continuando a usarla, con moderazione).
Questo non è un post che vuole dare contro nessuno, ma che vorrebbe iniziare un discorso schietto sul tema.