No critica, no sviluppo

È possibile lo sviluppo di un’arte, di una disciplina, di un mercato, senza che esista una vera critica e una vera analisi dei valori collegati alle idee o ai prodotti?
Abbiamo assistito negli ultimi 20 anni alla distruzione del sistema giornalistico e informativo, in gran parte dei paesi occidentali, non certo per colpa dei social, non certo per colpa dell’avvento del web ma per un orientamento commerciale nel quale il dissenso, il pensiero diverso, la critica trasparente e onesta ha lasciato spazio esclusivamente ad articoli, interviste, partecipazioni televisive o radiofoniche guidate esclusivamente da un narcisismo personale sociale, aziendale.
Sono anni che le riviste che parlano di fenomeni produttivi e artistici, come la moda, il design, più in generale la comunicazione, sono traboccanti di autointerviste, di messa in buona copia di comunicati stampa, della comunicazione unidirezionale da parte di chi produce idee o merci e che usa i giornali, la radio e la televisione esclusivamente come mezzi di amplificazione della propria voce.
Stesso trattamento è stato riservato ai social che non sono mai usati dalle aziende, dagli artisti, dai professionisti come luogo di discussione ma esclusivamente con megafono delle proprie immagini idealizzate, spesso non coerenti, nella più totale assenza di contraddittorio.
Questo fenomeno, che abbiamo visto poi prendere piede a partire dalla metà degli anni 10 del 2000 anche in campo politico, rappresenta uno degli elementi di maggior rischio per la crescita dei diversi comparti, delle idee, della società civile in sé stessa.
Nessuno mette in discussione una collezione di moda, nessuno mette in discussione il design di un prodotto, nessuno usa o sa usare il proprio giornale come snodo delle discussioni temendo che la pubblicità che, guarda caso appare proprio nello stesso numero del giornale o nella stessa emittente, possano essere sottratti con conseguenze devastanti per il proprio sistema economico.
Il web, i social, potevano costituire un’occasione unica ed interessante non solo dal punto di vista teorico ma anche pratico.
Poteva nascere una economia della conoscenza che utilizzasse l’analisi, la critica, la riflessione, il confronto, in un luogo che di fatto poteva rimanere completamente autonomo e libero da influenze.
Questo non è avvenuto perché gli stessi meccanismi commerciali utilizzati dai media tradizionali sono stati ricopiati nella rete senza un briciolo di fantasia, di capacità creativa, di coraggio.
Sono anni che non si vede in commercio un libro di vera critica del design, delle arti, di discipline artistiche o comunicative che non vada oltre il racconto vanitoso fornito da spesso sguaiati uffici stampa improvvisati.
Non a caso chiunque abbia un account Instagram si definisce non solo Creator ma anche social media Manager, un’attività che richiede competenze nell’ambito tecnico ma specialmente nell’ambito organizzativo, nella gestione delle community, richiede competenze statistico matematiche per analizzare il comportamento dei follower, per ingaggiare nuove conversazioni, per relazionarsi in maniera positiva verso chi interviene e chi vuole dire la sua opinione.
Questo schiacciamento verso il basso delle competenze che qualcuno sta provando a mettere in campo non trova certo l’unanimità ma sempre più una grande ostilità e sempre più le aziende dovranno confrontarsi con crisi di comunicazione, di immagine, dopo aver vissuto per anni di narrazione false, tendenziose, autoplaudenti, del tutto insignificanti.
Certo ci vuole coraggio a fare critica vera perché ci vuole coraggio innanzitutto ad avere la propria libertà di pensiero, non essere sottoposti a ricatti economici, sociali, commerciali.
Bisogna affrontare un nuovo nemico che non è tanto chi racconta in maniera orientata le notizie ma la grande massa di persone che non hanno vissuto l’esperienza critica né sui giornali, né sulla rete, ma che sono entrati improvvisamente in contatto con migliaia di altre persone e hanno capito che il modo migliore per affrontarle, per ottenere quel consenso che tanto sembra importante per loro, è quello di accodarsi alle idee più forti apparentemente, costruendo una massa di Human Robot ovvero persone che rispondono come se fossero dei bot ma in realtà sono degli umani che non fanno altro che replicare, applaudire, confermare, esaltare chi fa la voce più grossa.
Questo avviene nel campo commerciale, culturale, politico e non parliamo della polarizzazione sportiva che da sempre è sinonimo di sistema gregario in cui la verità, la realtà, sono del tutto indifferenti rispetto alle posizioni partitiche e squadristiche che si vogliono rappresentare come di propria appartenenza.
Siamo diventati, con maggior attenzione non noi ma i social che frequentiamo, alla fine una sorta di grande curva sud, uno spazio nel quale si plaude per non sentirsi diversi dagli altri, nei quali non si è capaci di fare un’analisi di un prodotto ma semplicemente di immaginare qual è la forma più veloce per sentirsi parte di un gruppo, per non sentirsi isolati, per trovare l’incanto di un consenso crescente.
Una sorta di metadone che fa credere di essere liberi ma che rimanda sempre al problema principale: la dipendenza psicologica nei confronti di qualcuno, di qualcosa, sia esso un marchio, un partito, un’idea, una merce, un modo di intendere la vita ma quella degli altri.
Non è un fenomeno solo italiano anche se prettamente italiano.
È il modo di porsi davanti all’autorità e non all’autorevolezza. Se non conosci, chi urla più forte ha ragione, ti sembra più sicuro, vincente. Chi appare più ,o è più aggressivo, allora è meglio essere dalla sua parte.
Non è una caratteristica solo italiana, ovviamente, ma è certamente una delle caratteristiche che maggiormente spiccano quando andiamo ad analizzare quelli che sono i comportamenti sui social.
Non ci sono in Europa comportamenti gregari analoghi, così diffusi, estesi, continui.
Questi comportamenti di sottomissione culturale e sociale nei confronti di un prodotto, di una merce ovvero di qualche cosa che si scambia con del denaro, sia essa un posto pubblico oppure un prodotto che ci fa credere di essere migliori di chi non ce l’ha, segnano e segnalano che davanti non abbiamo dei pensanti ma al massimo degli urlanti.
Bisogna costruire una nuova classe critica, una nuova classe in grado di interpretare il mondo secondo, e con strumenti, non solo coraggiosi ma specialmente capaci di esprimere punti di vista, che siano essi stessi oggetto di valore. L’era dei ruffiani è finita.

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