Uno spettro si aggira tra i creativi, lo spettro dell’intelligenza artificiale.
Non c’è artista o intellettuale che non si sia schierato, chi, come in una santa caccia all’ultimo respiro contro questo spettro, chi si è arreso al fascino dell’ignoto e del nuovo.
Dov’è il partito di coloro che vogliono decidere dopo aver conosciuto e valutato?
Niente da fare: chi si cimenta, diventa fiancheggiatore dell’intelligenza artificiale ed è marchiato a fuoco e diffamato come incapace che ha “bisogno delle macchine”, e chi viene bollato come irrispettoso del progresso.
Due sono le conseguenze questo fatto: l’intelligenza artificiale è già riconosciuta da tutti come una potenza e non c’è punto di ritorno.
Ci vuole coraggio a tentare di congelare in un articolo un fenomeno nuovo, in continua evoluzione, modifica e trasformazione che sottende a discipline antichissime, culturalmente caratterizzanti e di cui si è discusso per centinaia di anni. Così complesso che le stesse definizioni fondanti sono aleatorie, soggette a cambi di idee e opinioni.
Più che sul coraggio giocherò sulla sfacciataggine e magari con l’aiuto dell’ironia qualcosa ne ricaveremo.
Ho iniziato con una trasposizione del Manifesto del partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels e conto sulla bontà d’animo che contraddistingue filosofi e pensatori per questa conversione malsana.
Da quando sono state rese disponibili al grande pubblico le prime versione della nuova generazione di AI dedicate alla creatività, sui giornali, ma molto di più su cluster analizzabili, ovvero gruppi e account social, si è scatenato il tifo da una parte e le preoccupazioni più forti dall’altra. C’era poco in mezzo, poca possibilità di dialogo o discussione.
L’immagine è quella di tante persone in marcia con i tappi nelle orecchie ed il megafono ben rivolto verso il cielo. Alla ricerca di proselitismi e consensi.
È questo che accade negli ultimi quindici anni almeno per ogni fatto che assuma rilevanza mediatica. Che si tratti di politica o di sottilissima tecnologia è obbligatorio avere un’opinione, costruita nel più breve tempo possibile guardando con la visione periferica come si orientano quelli che in passato abbiamo visto come i giusti. La polarizzazione su un tema non ammette intrecci, sfumature, e l’ascolto dell’altro. La parola dell’altro è solo perdita di tempo.
Si device rapidamente da che parte stare e si tiene la barra dritta fino a schiantarsi.
Questa premessa è doverosa perché anche l’AI (da ora riduco così l’Artificial Intelligence) non è da meno. È un fatto di costume. E come tutti i fatti di costume non si può non schierarsi.
Quando si tratta di tecnologia vediamo il crollo verticale della credibilità dei giornalisti generalisti, opinionisti, comparse televisive, invitati con il gettone di presenza in bocca. Insomma tutto l’ecosistema di mantenimento del sistema pubblicitario mediatico ed in particolare televisivo.
È tutta una corsa a fare domande idiote a ChatGPT per rivendicare la propria capacità di fare domande idiote. Se hai le spalle larghe vai in prima pagina, se non le hai lo scrivi in un post in qualche social. E magari paghi la sponsorizzazione perché la tua inutile valutazione si propaghi.
Questo è il fenomeno sociale e di costume.
Proviamo a fare un passo indietro e un passo a sinistra e proviamo a cambiare la prospettiva.
Tranquilli, non farò la storia delle AI semplicemente perché non serve ma qualche punto fermo del passato dobbiamo rivendicarlo.
Le Ai sono presenti nelle nostre vite da molto tempo. Erano prive di quella tecnologia che ne ha permesso il salto di qualità e che le ha rese famose.
Fila il discorso vero?
Un momento. A quale tecnologia specifica mi riferisco? È stato inventato un nuovo algoritmo, una nuova matematica? Abbiamo avuto a disposizione processori di una generazione superiore in grado di essere abilitanti la tecnologia?
Si può rispondere con “parzialmente” a tutto questo ma nessuna risposta risolutiva. E allora? È cambiato l’approccio. Si sono fatte cose che prima forse non volevamo fare. Ad esempio impossessarci della conoscenza altrui in forma massiva e con un livello di capacità di archiviazione ben superiore al passato. Forse eravamo convinti che raccogliere indiscriminatamente materiale prodotto da altri e distribuito liberamente al solo scopo di conoscenza non potesse essere mescolato per non essere riconosciuto e poi rivenduto.
È come rubare molti gioielli e poi farli a pezzi perché nessuno possa più riconoscerli con certezza e rivendicarli.
Lo ammetto è una visione forte ma ha trovato accoglienza in molti ambiti e quindi qui l’ho ripetuta.
Facciamo in passo indietro.
Senza farne la storia, posso solo ricordare come le AI abbiano sempre avuto una grande attenzione da parte del pubblico per quell’immaginario che evocano e che portano con se, dalla nascita delle prime intuizioni.
La fantascienza ha aiutato nella loro popolarizzazione e il loro sviluppo era dato per scontato prima ancora che se ne sentisse la reale necessità. Una profezia che si auto avvera.
A momenti di grande entusiasmo e di supposta svolta tecnologica e logica, sono seguiti immancabili momenti di delusione e addirittura repulsione. Sono quelle che, romanticamente, vengono chiamate le primavere e gli inversi. Di estati però finora non ne avevamo avute.
Da almeno un decennio assistiamo all’uso improprio della dichiarazione di strumenti software supportati dall’AI. Ma diciamocela tutta, nella maggior parte dei casi erano più simili agli occhiali a raggi X di popolare memoria che vere applicazioni con una qualche forma di intelligenza.
Su cosa sia l’intelligenza rimandiamo a tutte le opere finora scritte ma sull’intelligenza artificiale possiamo azzardare qualcosa: un comportamento che appare intelligente. Sottolineo appare.
Molte delle chatbot con le quali operatori di servizi sterminano le richieste di assistenza dei clienti (si, servono solo a far desistere chi non è fermamente ostinato nella richiesta) si basano su matching di parole, su concatenazione di richieste, su pattern ripetitivi e poco hanno a che fare con una vera intelligenza artificiale. Almeno come la vorremmo avere: in grado di fornirci una risposta la più vicina possibile alla realtà ma specialmente utile.
È arrivato il momento di darne la definizione definitiva.
Ma esiste una definizione definitiva?
No.
Allora proviamo ad avvicinarci. E lo facciamo con l’AI per le applicazioni nell’ambito artistico e più in generale creativo.
Ogni produttore di tecnologia per le intelligenze artificiali creative ha trovato una sua definizione che, guarda caso, calza perfettamente con le capacità che vorrebbe disporre la sua creatura.
Ma adesso ci spetta il compito impossibile: definire la creatività. Ci sono più stelle in cielo che definizioni di creatività in terra.
E allora, con il coraggio che ci contraddistingue fin dalle prime righe di questo articolo proviamo una definizione. Siate pronti a criticare, sospirare, sbuffare, correggere, indignarvi?
Pronti?
Scendo a compromessi: quella che avete in testa è certamente la più corretta, la più vicina alla realtà.
Passiamo oltre.
Con la definizione che avete in mente come potete immaginare di costruire un algoritmo, una macchina, una tecnologia che ricrei quella condizione? Quali elementi deve soddisfare? Quanti sono poi questi elementi?
Gli “elementi” intelligenza artificiale creativa attuale sono dei parametri e si parla di miliardi e più tempo passa e più questi valori sono destinati a crescere.
In questi mesi abbiamo imparato, provato, condiviso stupiti gli esiti delle intelligence artificiali creative. Non credo che nessuno dei lettori non l’abbia fatto, per curiosità, per mettere alla prova, per capirne possibili applicazioni.
Ma come ogni nuova opportunità o tecnologia, con un tempo decisamente inferiore a quello necessario per prenderne il controllo è tutto un fiorire di corsi di “prompt” cioè delle istruzioni descrittive che generano le immagini, i video, i testi, i suoni. Insomma quelle che servono a saccheggiare la “conoscenza occidentale” per farne un mashup. Ed estrarne una rappresentazione.
Facciamo attenzione alle parole.
Quando parlo di saccheggio della conoscenza occidentale è proprio a quella che faccio riferimento. Per decenni singole persone, autori, artisti, giornalisti, scienziati, università, imprese hanno travasato la loro conoscenza in documenti pubblici. Documenti che sono diventati sapere comune.
Spesso perché la pubblicazione permetteva qualche salto di carriera in ambito accademico ma nella maggior parte dei casi per reale volontà di diffondere la conoscenza.
Pensate a voi stessi: quanti lavori, opere, fotografie avete condiviso in social ma anche nel vostro blog o sito. LO scopo, immagino, fosse il confronto con l’esterno, l’occasione di discussione con altri.
Non credo che nessuno abbia postato una fotografia con il pensiero “speriamo che un giorno qualcuno prelevi a mia insaputa questa immagine e ne addestri un’intelligenza artificiale…”.
Se lo avete fatto siete dei geni. Scrivetemelo.
E parlo di occidentale perché quelle che abbiamo visto finora sono solo fonti anche di altre culture ma che sono state “trascritte” nel web nelle lingue occidentali e di accesso occidentale.
Se provate a cercare qualche artista poco noto in occidente africano non troverete nulla. O meglio ChatGPT vi racconterà una storia verosimile ma inventata e voi avrete ben poche fonti per verificarlo.
Quello che è all’interno del recinto cinese ad esempio non è parte della conoscenza di queste intelligenze. Così in molti altri paesi.
Quindi si apre il tema dell’appropriazione culturale da una parte e della limitatezza della conoscenza dall’altra. Altro che intelligenza universale: si limita a prendere dalle case nelle quali avete lasciato la porta aperta.
Tutto il mondo Creative Commons ha permesso la diffusione della conoscenza, così come sul fronte software l’open source, figlio di decenni di politiche di liberazione del dato, lontani dalle grandi imprese, ha fornito la consapevolezza che il sapere condiviso è un sapere che assume valore per la società.
Se escludiamo le pubblicazioni scientifiche, per i motivi di cui sopra, analizzando i dati a livello globale vedremo che la stragrande condivisione, anche per motivi di lingua ma specialmente per cultura, vengono dai paesi occidentali.
Voglio tornare indietro, si tratta quindi di un’ulteriore caso si appropriazione culturale? Parlerei piuttosto di appropriazione sociale perché di questo si tratta.
Un meccanismo, come quello che abbiamo visto in precedenza offre la possibilità con qualche indicazione di creare un’opera. Da questo momento alla parola opera potete sostituire: testo, racconto, poesia, libro, relazione, lettera, canzone, musica, composizione, immagine, fotografia, bozzetto, disegno, fotografia, immagine (l’avevo già detto), video, film, documentario, modello 3D, animazione, videogioco, codice sorgente, ecc. Siete liberi di aggiungere a piacere.
Torniamo all’opera. Se questa è ottenuta dalla sua rappresentazione che ha come motore di descrizione (dalla decostruzione dell’opera originale alla sua costruzione) un modello basato su un testo (anche qui allargate gli orizzonti; può essere un database, un dato strutturato, un modello, qualsiasi cosa he si salvi in un file come descrittivo) mancano elementi essenziali per poterne definire l’artisticità.
Non c’è la metafora. Le metafore non si riescono a rappresentare se non esiste un background conoscitivo e culturale e questo ovviamente manca. Se già tra culture diverse gli immaginari sono completamente differenti pensate alla loro totale mancanza. Immaginatevi un sistema che codifica, decodifica delle opere senza il contesto generale o utilizzando un mix casuale di contesti simili. Ne esce un prodotto che può impressionare ad una prima visione ma che se sottoposto ad una analisi critica è poco più che speculativo.
E della lettura semiotica che ne facciamo? Buttiamo all’aria decine di anni di critica, di analisi, di riflessioni? Di accumulo di strutture (e sovrastrutture) alla ricerca di un significante che l’AI non è in grado di percepire?
Chi ha detto semantica? Ho detto semiotica. Va bene, mettiamoci anche la semantica e anche questa è intrasferibile attraverso delle letture descrittive delle opere. Anche se sono analisi basati su forme e colori l’AI non ne comprende la correlazione più ci allontaniamo dalla banalità o dalla ripetizione.
Vogliamo mettere poi il valore dell’esperienza e della vita dell’autore dell’opera? Come può relazionarsi quel grumo informe di bit con un’esperienza vissuta? Con la scuola a cui si rifaceva l’autore o che esso stesso aveva creato. Come si pone nei confronti delle motivazioni dell’opera stessa, del committente, del contesto sociale?. Delle motivazioni economiche, religiose, spirituali?
Pensiamo poi al fronte della Pubblica Amministrazione. Noi abbiamo una norma, di derivazione europea, che impone alle amministrazione di rilasciare le proprie informazioni in formato open data.
Non è che in questo siamo brillantissimi, moltissime amministrazioni sono carenti, lente, poco disposte ad uno strumento che aiuta la trasparenza. Ma comunque qualche decina di migliaia di basi di dati ci sono. E sono in rete al primo che le vuole raccoglie e riutilizzare.
Anche la conoscenza geografica dipende esclusivamente dal lavoro di decine di miglia di persone intono a progetti aperti come OpenStreetMap.
Insomma la conoscenza che abbiamo riversato con straordinaria generosità principalmente con motivazioni ideologiche e sociali adesso è imprigionata, nella sua rappresentazione cristallizzata in un grumo di bit che la scimmiottano.
Avendo a questo punto perso la metà dei lettori polarizzati e convinti che l’AI sia solo un momento evolutivo verso l’immaginifico mondo virtuale che toglie i dolori di quello terreno proseguiamo sulla strada che porterà allo stremo il lettore che ancor resiste.
Da una parte un mondo di tecnocrati, le grandi corporation del digitale, che hanno fatto del coding la loro missione di vita non hanno mai sfiorato le arti e le culture se non poterne fare contenuti attraverso i quali veicolare la pubblicità di merci.
Ricordate la digitalizzazione dei grandi musei del mondo? Quale ne è stato l’uso? Li andate e vedere periodicamente? Di certo adesso sappiamo che sono serviti ad addestrare le AI per scimmiottare un periodo, uno stile, un autore.
Quanti di questi colossi hanno investito nella realizzazione di grandi collezioni, muse, mostre, concorsi letterari o di poesia?
Quale contributo hanno dato alla crescita culturale ed artistica?
Ho la memoria corta oppure sono davvero pochi. Non ne ricordo di significativi.
L’obiettivo dell’impegno di charity era solo immateriale, era raccontare che la vita è solo digitale, l’esperienza fisica era finita.
A Google non interessa se stai presentano la più straordinaria delle opere rinascimentali italiane o un acquarello fatto da un anziano nel corso di una class estiva. Con tutto il rispetto per l’anziano che frequenta la class estiva.
L’oggetto portatore di pubblicità è indifferente.
Che sia un’opera, come detto, un dramma, una disgrazia, il dolore di una famiglia, un’immagine morbosa, sconveniente o una pornografica appena sotto la soglia di attenzione delle regole del social è lo stesso. Tutto quanto fa traffico ed è indistinto.
Rimane puro veicolo di pubblicità.
In questo mondo così ribollente poi si arriva al paradosso: qualcuno vorrebbe difendere legalmente i prompt come prodotto del proprio ingegno (immaginate che qui abbia messo un palmface). I prompt che si usano ora, le interfacce grafiche che useremo nella prossima generazione di AI, gli esempi che daremo in pasto a questi restitutori di immagini contraffatte sono ben lontani dall’invenzione che determina la creatività di un’opera.
Non a caso siamo circondati da AI creators che si stupiscono per il risultato ottenuto.
Il loro ingenuo stupore è il segno tangibile, inoppugnabile che il risultato ottenuto non rispecchia affatto il loro latente intento artistico.
Il controllo totale dell’opera non può essere definito così meticolosamente altrimenti avremmo una copia digitale del prodotto realizzato e questo, per la legge della semplificazione non potrà mai avvenire.
Potrei buttare li anche la legge sull’entropia ma poi sarebbe da spiegare il verso temporale e questo complicherebbe la spiegazione. Meglio se non lo dico. Cancellate le ultime righe che avete letto.
Torniamo sull’intenzionalità che è fondamentare per definire il gesto artistico.
Un barattolo di colore (ovviamente aperto, rispondo qui ad una osservazione fatta usando questo esempio in un seminario) che accidentalmente cade a terra non è un’opera d’arte. Ma il dripping di Jackson Pollock lo sono di certo perché fanno parte dell’intenzione, anzi della pre-intenzione, del momento del concepimento, dell’opera prima ancora di immaginarne il risultato.
Insomma i prompt non ti fanno diventare ne poeta, ne artista, ne fotografo.
Sugli aspetti legali della proprietà intellettuale delle opere realizzate con l’Intelligenza artificiale non posso non consigliare il recentissimo e accurato libro L’autore artificiale – Creatività e proprietà intellettuale nell’era dell’AI del Prof. Avv. Simone Aliprandi, Ledizioni, Milano 2023.
Con questa generazione di AI per la prima volta si cerca di imitare e ricreare una attività umana, come le arti, attraverso l’apprendimento più o meno consapevole di quello che altri considerano arte. O meglio quello che nel web è stato definito nella categoria arte.
Le regole con le quali queste sono selezionate sono puramente estetico rappresentative o cromatiche nella migliore dei casi.
Ben comprendo quindi le perplessità di artisti, illustratori, scrittori, creativi quando guardano non con diffidenza ma con distacco gli esiti di queste macchine delle illusioni.
Dall’altra parte, e qui la chiusura ecumenica, dobbiamo provare ad hackerare, nel significato originale, questi algoritmi per piegarli alle intenzioni artistiche.
Chiudo con una frase ad effetto che di solito lascia il lettore soddisfatto: al momento i sistemi generativi generano mediocrità perché l’arte è controintuiva. Non è mimesi, copia o mescolanza.