La Civiltà del Consenso, nella quale viviamo, tutti e senza distinzione, impone delle nuove regole di conversazione, non ci bastano le “carezze digitali” che piovono sui post dei social come i like, ma dobbiamo andarle a cercare quando non ci sono. La Civiltà del Consenso impone una superficialità declamata: è normale andare a chiedere raccomandazioni su Linkedin (o nei concorsi), è normale screenshottare “guardate il mio libro è primo nella classifica nello store di Amazon in Bulgaria nella categoria – Libri sui pinguini che prendono il sole alle Baleari ”. L’importante è esprimere lo stupore del trafiletto-necrologio che parla della propria attività dopo aver sminchionato giornalisti, parenti di giornalisti, cugini di addetti al recapito nelle redazioni. Anche in questo caso il media è indifferente: “Ringrazio xy che mi ha pubblicato il mio articolo sui social in spiaggia nell’ultimo numero di Calcestruzzo Moderno”. XY è l’anello debole, che ha ceduto, nella lunga catena giornalistica.
Ma ormai siamo in questo mood e non ci possiamo fare quasi nulla.
Consenso, consenso, consenso sono le parole chiave.
Come non citare Italo Calvino e il suo Il barone rampante:
Le imprese che si basano su di una tenacia interiore devono essere mute e oscure; per poco uno le dichiari o se ne glori, tutto appare fatuo, senza senso o addirittura meschino.
E quando non hai fatto nulla per avere questo riconoscimento sociale? Ti crei un protagonismo all’interno di una storia totalmente inventata e poi la metti sui social e la curi, rispondi a tutti i commenti, ti prepari a ringraziare con la modestia che ti contraddistingue nella foto-profilo sdraiato sul cofano della 128 Abart.
La favola 2.0 può essere raccontata in prima persona o per mezzo di altri esseri impossibilitati a confermarla, come i figli piccoli. Le favole, ovvero narrazioni di fatti inventati hanno sempre una morale.
Tipica struttura della Favola 2.0 è costituita da un fatto che sdegna pubblicamente e nel quale il nostro attore assiste casualmente. Situazioni tipiche sono l’ascolto di conversazioni nei locali pubblici, nei mezzi pubblici o altra situazione pubblica per una serie di motivi: l’impossibilità di riconoscere i soggetti della presunta conversazione, il distacco rispetto al proprio mondo lavorativo o familiare. Difficile pensare che il narratore possa raccontare qualcosa di disgustoso che è accaduto e che coinvolga persone che conosce o che è costretto a frequentare per lavoro.
Meglio quindi il luogo pubblico affollato, aiuta anche nella seconda parte ovvero quando il nostro eroe digitale interviene, ammonisce, spiega, litiga, racconta quel giusto che poi sarà oggetto della sua pubblica approvazione sui social.
Case history tipica: “ero al bar quando ho sentito due persone {descrizione minuziosa, età, vestito, eventuale Rolex al polso, ecc.} che parlavano di {aggiungere a piacere fasce discriminate, minoranze, luoghi comuni}”. Il tutto procede con delizia di particolari su se stesso (es. ”sbigottito continuavo a sorseggiare il cappuccino”) oppure con situazioni che vadano ad ulteriore favore del narratore (es. “nonostante fossi in ritardo”) definendone ancora maggiormente la propria civica dedizione.
Al termine della discussione il nostro si intromette, sbugiarda gli astanti, gli fa la morale, racconta il pallore nei loro visi, la fuga dimessa dei vigliacchi e poi poche parole conclusive per giustificare la pubblicazione di un fatto che se fosse vero, sarebbe privatissimo (es. “non ho potuto non raccontarvelo” oppure “se tutti ci comportassimo in questo modo…”).
Variante della precedente è una sorta di racconto con se stessi, sempre con una sottesa morale di indubbio consenso che viene fatta attraverso delle presunte domande dei figli. Non si chiamano per nome, no, si indicano per età (l’ottenne, il 7enne) per giustificarne l’ingenuità oppure la variante detta di Charlie Chan in cui si numerano (figlio uno, due, ecc…). Se è figlio unico si usa l’espressione “il/la nanetto/a” oppure “il/la cucciolotto/a”. Altre varianti sono possibili a piacere.
In questo caso è dalla bocca innocente che escono le domande che servono al genitore ad esprimere la morale. Casi tipici sono riferiti a comportamenti deplorevoli. Ad esempio: “Ero alle Poste quando il nanetto di dice -Papino perché quella signora ci passa davanti mentre tutti noi siamo ordinatamente in coda?”. La risposta/lezione genitoriale è esemplare “quella signora rappresenta l’italiano medio, incapace di seguire le regole fondamentali del vivere civile”. Già qui siamo in zona spellamento mani da applauso indotto ma i migliori hanno anche la conclusione con la conferma che la propria creatura non solo è normodotata ma anche un raro genio rispetto all’età ed è addirittura in grado di suggerire una soluzione “ho capito papy, sarebbe utile che sviluppassimo in tal senso una app segnaposto usando Swift anche perché 2,6 volte più veloce di Objective-C”. Tutto questo a tre anni.
Applausi.
Variante con il moralismo sui “cibi utili”…