L’informatica orale, quella fatta di chiacchiere, di retorica, di convegni, di articoli sui giornali, del parlarsi addosso, di chi non sa nemmeno programmare con un linguaggio, periodicamente sforna nuovi acronimi e nuove definizioni nel tentativo di attrarre l’attenzione di investitori, clienti ma specialmente dei media.
Frasi feticcio ripetute come mantra che assumono, rimestando nel vuoto, significati lontani da quelli originali, veri. Uno dei tanti casi riguarda la definizione di Big Data.Per anni, ho lavorato su grandissimi dataset sia nel trattamento ed elaborazione delle immagini da satellite, sia progettando sistemi multidimensionali per l’emergenza e la protezione civile. Dataset che, data la loro dimensione, non potevano essere trattati, per ragioni di capacità di calcolo e di velocità, da database commerciali o comunque standard. Bisognava di volta in volta costruire dei software in grado di leggere, interpretare e riscrivere quei dati nel modo più opportuno.
Ma non avevamo bisogno di chiamarli in maniera diversa, qualificandoli come una possibile area di business. Le competenze per l’elaborazione di tali dati non sono facilmente rintracciabili nel mercato riciclando laureati in marketing o economia. Servono di certo forti conoscenze matematiche ma anche relative al settore di appartenenza dei dati. Provate a rielaborare e interpretare i dati provenienti dalle missioni astronautiche e ditemi quali competenze servono.
Chiamarli Big Data e facendo credere che quei dati si possono elaborare facilmente, con i software in commercio, è una pura forzatura. Elaborare i dati richiede tempo e costi e non sempre, specialmente in questo periodo, le imprese sono interessate ad avere analisi più sofisticate quando la loro possibilità di manovra commerciale o industriale è in ogni caso fissata dalle risorse economiche già allocate nel modo più strategico possibile.
Qualche anno fa si era formata l’idea di lavorare sul data mining ovvero sui dati nascosti nelle pieghe delle informazioni aziendali. Evidentemente il termine non piaceva probabilmente perché il riferimento minerario ricordava un lavoro fisico, la fatica, il sudore, tutte cose che incravattati venditori di soluzioni software repellano come la peste.
Ma i big data esistono? Certo! In grandi aziende, pensiamo a tutti i dati della grande distribuzione che associa prodotti , vendita, prezzi, georeferenziazione, oppure nelle telecomunicazioni, in applicazioni militari o di ricerca.
Ma continua a rimanere un settore, un segmento di nicchia. Pensare di applicare i big data ai CRM aziendali della PMI italiana appare ridicolo, inconsistente, anche perché la base dati in questi casi non può contenere nulla di così nascosto rispetto alle tradizionali elaborazioni o ai risultati dei cruscotti aziendali.
I dati di Gartner che prevede entro il 2015 che la domanda di Big Data genererà 4,4 milioni di posti di lavoro a livello globale, appaiono, anche al più sprovveduto degli analisti come esagerati e certamente influenzati dagli investimenti commerciali e pubblicitari dei grandi vendor di software. Dati che sono difficilmente confutabili o smentibili: cosa si intende per posti di lavoro? Come si calcolano? Nelle previsioni a breve e dove i dati sono pubblici, chiari e non interpretabili non mi pare che Gartner sia stata sempre infallibile. Qui ad esempio ha dovuto rivedere nel giro di 6 mesi i suoi dati previsionali sbagliando di oltre il 30% in un mercato maturo, conosciuto e con 25 anni di esperienza (quindi non ha usato i big data?) come quello dell’hardware.
Ritorniamo con i piedi per terra per favore. I Big Data sono un’importante risorsa in alcuni settori e faranno la fortuna di pochi specialisti. Anche le analisi delle conversazioni sui social network non cambieranno il mercato del lavoro nel settore digitale. Illudersi che possa essere un business globale significa semplicemente non aver memoria del passato. Ricordate la Realtà Virtuale dei primi anni ’90 o Second Life? Ecco. Anche in questo ultimo esempio non erano pochi i vendor (prima tra tutti IBM) che andavano raccontando che il mercato virtuale sarebbe passato tutto attraverso la simulazione in soggettiva. Fu un flop.
Ho trovato questo articolo di John De Goes CEO di Report Grid pubblicato su Venture Beat che spiega bene come stanno le cose:
“Big data” is dead. Vendors killed it. Well, industry leaders helped, and the media got the ball rolling, but vendors hold the most responsibility for the painful, lingering death of one of the most overhyped and poorly understood terms since the phrase “cloud computing.”
Any established vendor offering a storage or analytics product for a tiny or a large amount of data is now branded as big data, even if their technology is exactly the same as it was 5 years ago (thank you, marketing departments!). Startups, too, lay claim to the moniker of “big data app” or “big data startup,” eager to soak up some of the big data money floating around in big data-focused VC funds.
The phrase “big data” is now beyond completely meaningless. For those of us who have been in the industry long enough, the mere mention of the phrase is enough to induce a big data headache — please pass the big data Advil. (Editor’s note: We couldn’t agree more!)
If you want proof, witness the rising tide of backlash against the term:
- “Every so often a term becomes so beloved by media that it moves from ‘instructive’ to ‘hackneyed’ to ‘worthless,’ and Big Data is one of those terms….” Roger Ehrenberg
- “Every product by every vendor supports big data… and every ‘industry leader’ with every talk needs to include the phrase in the title of their talk and repeat it as many times as possible. So every data warehouse pitch is rehashed as a big data pitch, every data governance, master data management, OLAP, data mining, everything is now big data.” Rob Klopp
- “Big data as a technological category is becoming an increasingly meaningless name.” Barry Devlin
RIP Big Data.
Il resto dell’articolo lo trovate qui.
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