Non è difficile sperimentare la violenza delle porte automatiche nei corridoi del metro parigino. Una disattenzione, un movimento improprio, uno zaino un po’ largo, un bimbo tenuto per mano che non vuole sbrigarsi… e una tenaglia di caucciù stritola le spalle o colpisce le tempie. La disavventura fa sorridere gli utenti abituali del metro: hanno imparato ad adattarsi alle macchine. Le vittime stesse incolpano solo la propria goffaggine. [Jean-Noël Lafargue in Le Monde Diplomatique].
Ma immaginiamo per un attimo che le porte siano rimpiazzate da vigili incaricati di dispensare schiaffi e botte ai clienti che non circolano abbastanza velocemente: sarebbe scandaloso, insopportabile. Tuttavia noi lo accettiamo dalle macchine, perché sappiamo che esse non pensano. Crediamo, pertanto, che non siano mosse da alcuna cattiva intenzione. Sbagliato: se è vero che gli automi non hanno coscienza dei propri atti, essi obbediscono pur sempre a un programma, regolato intenzionalmente. In altre città, si trovano delle obliteratrici, non delle porte; altrove la convalida dei biglietti è effettuata sotto sorveglianza umana; e, a Aubagne o a Châteauroux, i trasporti urbani sono… gratuiti.
La logica apparente del controllo dei biglietti (dalla razionalità economica molto discutibile) crea altre costrizioni. Le barriere assegnano il pubblico a delle zone precise: si è o dentro o fuori. Nella stazione ferroviaria del mio paese di periferia, la recente installazione delle porte impedisce agli utenti di lasciare liberamente il binario per comprare un giornale, bere un caffè o tornare alla biglietteria per chiedere informazioni. Il viaggiatore potrà utilizzare solo il distributore automatico di bibite e snack (costosi) piazzato sul binario. E, per leggere, dovrà accontentarsi dei cartelloni pubblicitari.
Innumerevoli dispositivi programmati gestiscono o assistono la nostra quotidianità. Chi non è mai impazzito di fronte a una di quelle segreterie telefoniche interattive che intimano di «premere asterisco» o di pronunciare con voce in-tel-lig-gi-bi-le espressioni grottesche: «Se volete informazioni, dite “informazioni” » – «Informazioni» – «Sono spiacente ma non ho capito la vostra risposta, vogliate riprovare» – «Informazioni» – «Si prega di richiamare più tardi»?
Anticipando l’esistenza di conversazioni programmate, il pioniere dell’informatica Alan Turing propose nel 1950 un test divenuto celebre: parlando attraverso un’interfaccia testuale, possiamo capire se il nostro interlocutore è un uomo, una donna o invece un programma particolarmente ben concepito? Le pratiche del marketing telefonico o dei servizi di assistenza online aggiungono un ulteriore dilemma: a chi parliamo veramente durante questi scambi programmati? In parecchi casi, gli impiegati dei centralini seguono un programma «esperto» e non dispongono di alcun margine di manovra. Questi servizi automatici sono concepiti con l’idea, senza dubbio giustificata, che le domande siano più o meno sempre le stesse. Gli impiegati «robotici» fungono da filtro ed evitano l’intervento dei tecnici per problemi minori. Spesso, il filtro si dimostra così potente che è assolutamente impossibile raggiungere la persona competente. Ma se sono degli umani che rispondono, e non dei programmi interattivi, è anche perché, se non trovano una soluzione ai propri problemi, gli utenti credono di poter trovare presso il loro interlocutore almeno una qualche empatia o, alla peggio, l’occasione per sfogarsi verbalmente: la qual cosa, come ha dimostrato Henri Laborit alla fine degli anni ’50, permette di liberarsi dallo stress, a livello neurologico, in maniera quasi altrettanto efficace della risoluzione effettiva del problema che ne è la causa. E infine, i teleoperatori la cui conversazione segue un canovaccio programmato hanno il vantaggio di essere perfettamente intercambiabili. Lavorando un giorno per un’amministrazione, il giorno dopo per un operatore telefonico e il giorno seguente per un istituto di sondaggi, essi beneficiano di una formazione molto breve che consiste innanzitutto nell’apprendere a pronunciare solo frasi positive (non si dice «non è possibile» ma «faremo di tutto per risolvere il vostro problema»). Non è infrequente che tali operatori, spesso localizzati in paesi francofoni dove la manodopera è a buon mercato, non comprendano totalmente la situazione che sono incaricati di gestire – stentiamo a capire perché un abitante di Casablanca o di Tunisi dovrebbe appassionarsi per le rimostranze dei clienti di un servizio di spedizioni di pacchi in Francia. Proletarizzati, gli impiegati dei centralini non hanno né la possibilità di prendere iniziative né quella di acquisire (e monetizzare) delle conoscenze e un’esperienza: così non si corre il rischio che tale impiegato divenga indispensabile. In maniera casuale, altri programmi robotici (meccanici al 100% stavolta) richiamano i clienti per verificare il loro grado di soddisfazione.
Le domande riguardano non tanto il servizio in generale, quanto la qualità della conversazione: «Il vostro interlocutore vi è sembrato sufficientemente cortese? Si è espresso in un francesecorretto?» Tale questionario, che interessa solo l’imprenditore, fa effettuare il lavoro di controllo all’utente, ormai ausiliario del caposervizio e messo nella posizione di «padrone di rincalzo», per riprendere l’espressione di Marie-Anne Dujarier (1). Presentata come un mezzo per ridurre i compiti monotoni, l’automatizzazione valorizza, nella «risorsa umana», non il libero arbitrio o la competenza (la procedura non è di competenza dell’agente), ma la capacità di assorbire lo stress e l’aggressività. Tutto sembra concepito non per risolvere dei problemi, ma per impedire che questi raggiungano i responsabili. Volgiamo per un attimo lo sguardo alle nostre carte d’identità. Senza sorrisi, senza espressione, gli occhi vuoti, diamo di noi stessi un’immagine triste, un po’ angosciata, che non ci assomiglia e che nessuno riconoscerebbe come la propria. Sono le direttive ufficiali del ministero dell’interno: il soggetto deve «fissare l’obiettivo. Deve adottare un’espressione neutra e avere la bocca chiusa. […] Le dimensioni del viso devono essere comprese tra 32 e 36 mm, dalla parte inferiore del mento alla sommità del cranio» (norma Iso/Iec 19794-5). Il ministero della tristezza ha le sue buone ragioni: questa immagine non è destinata a occhi umani ma a dei programmi di biometria, molto complessi, che riconoscono le persone solo in condizioni standard. Così, il volto ufficiale di ciascuno è definito dalle necessità di un programma che vede in esso solo una somma di valori e una faccia da cui qualsiasi barlume espressivo deve essere bandito.
Si sperimentano oggi dei programmi che leggono le labbra delle persone filmate – come il computer Hal 9000 in 2001, Odissea nello spazio, di Stanley Kubrick –, analizzano i gesti, l’andatura, la postura o gli spostamenti. Quell’individuo, che ha lasciato passare diversi convogli ed è rimasto sul binario, è sospetto. Quell’altro, che cammina in direzione contraria alla folla, è sospetto anche lui. Ogni evento deviante fa scattare un’allerta e provoca un controllo. Più estremo ancora è il dipartimento della sicurezza interna degli Stati uniti che conta di equipaggiare gli aeroporti con un sistema battezzato Future Attribute Screening Technology (Fast), il cui obiettivo è individuare i segni di possibili cattive azioni: sguardo sfuggente, battito cardiaco che aumenta, ecc. Come nel film di Steven Spielberg Minority Report (tratto da un racconto di Philip K. Dick), il crimine è noto prima di essere stato commesso (2). Dei dispositivi digitali all’apparenza ben più neutri possono avere un carattere altrettanto coercitivo. L’informatica personalizzata ha modificato radicalmente numerose pratiche professionali, rendendo obsoleti certi saperi. Un tempo erano necessari anni per formare un ritoccatore di foto, perché questi doveva possedere una manualità particolare, conoscere i suoi materiali e i suoi strumenti. Oggi, si trasferisce la competenza tecnica sul programma e si proletarizza l’artigiano: egli ormai dipende dalle decisioni prese dagli ingegneri delle società Adobe o Apple.
Come spiega l’artista e designer John Maeda, nessuno può ritenersi «gran maestro di Photoshop»: «Chi ha veramente il potere?Il mezzo o il maestro?». Per lui, la salvezza del creativo passa per il possesso dei suoi mezzi di produzione (3). Come riprendere in mano il nostro «destino digitale» in un’epoca in cui, essendo tutti utenti di strumenti programmati, rischiamo di diventarne schiavi? I dibattiti che circondano le questioni dell’hacking – usare un mezzo digitale al di là delle sue modalità d’impiego (4) –, del software libero – non ignorare nulla del funzionamento di un programma e poterlo migliorare – o del bricolage (do it yourself ) sono molto più politici che tecnologici.
(1) Marie-Anne Dujarier, LeTravail du consommateur, La Découverte, Parigi, 2008.
(2) «Terrorist “pre-crime” detector field tested in United States», Nature, Londra, 27 maggio 2011, www.nature.com
(3) John Maeda, Maeda@media. Journal d’un explorateur du numérique, Thames & Hudson, Parigi, 2000.
(4) Leggere Jean-Marc Manach, «I maghi “tuttofare” dell’informazione», LeMonde diplomatique/il manifesto, settembre 2008.
Regista multimediale, docente all’università Paris-VIII, autore, con Jean-Michel Géridan, di Processing. Le code informatique comme outile de création, Pearson, Parigi, 2011.